Condividiamo qualche domanda maleducata sul funzionamento dell’istruzione e formazione professionale (IFP), osservandone il sistema da punti di vista diversi. L’esito sembra invitarci a disapprendere alcune idee ricorrenti.
Quanto “fattura” la IFP in Italia? Provate a mettere insieme un dato credibile. Provate a rilevare i flussi: finanziamenti pubblici e investimenti diretti delle imprese per pagare la formazione, rette pagate dagli allievi. E poi cercate i numeri (buoni, credibili e verificabili) sull’impatto: per esempio, l’incremento di valore aggiunto causato dalle azioni di IFP, il minor costo della permanenza in disoccupazione, ecc. Infine, fate la divisione: qual è il guadagno?
Sembra quasi che il settore dell’istruzione e formazione professionale sia una specie di mulino in cui entrano soldi, formatori, allievi che già lavorano o sperano di lavorare, e in uscita? Dai risultati non abbiamo dati confrontabili e affidabili, a sufficienza, a parte i certificati che attestano l’acquisizione di una delle 13.484 conoscenze, competenze e abilità classificate nel catalogo del Cedefop (https://www.cedefop.europa.eu/) e che vanno da ”risolvere i problemi operativi di trasporto” (n. 13.325) e “gestire l’impresa di produzione” (n. 3.579) a “servire i vini” (n. 3.633) e “preparare panini” (n. 3.871). Sono credenziali realmente spendibili?
Si dice: la formazione è essenziale per la competitività delle imprese. Cosa vuol dire in concreto? Formare persone per risparmiare o per fare investimenti – e doverne fare – di più? A fronte di quale strategia, piano, programma di lavoro si chiede formazione per le persone o persone formate? Abbiamo visto tutti gli osservatori e le proiezioni sul fabbisogno futuro di competenze basarsi sul rilevamento dei soli auspici e desideri anziché sull’analisi dei piani di investimento.
Infatti le imprese più performanti investono budget crescenti in programmi di formazione, a tutti i livelli.
Parziale risposta: la formazione, per produrre risultati utili al sistema produttivo e sociale oltre che a chi la fa, dovrebbe avere come condizione l’investimento delle imprese in analisi e miglioramenti organizzativi dei processi e delle tecnologie, che renderanno profittevole l’inserimento di persone formate e la formazione continua del personale.
Poi ci sono le persone in formazione: chi partecipa nella speranza di trovare lavoro, chi lavora e la deve fare e la considera un’interruzione fastidiosa o piacevole, dipende. Quanto progetto personale c’è nell’adesione a un’iniziativa formativa? E più ancora, quanta motivazione propria, quanta voglia? L’assenza di motivazione propria è così scontata che alla fine dell’intervento formativo in azienda l’HR manager ti chiede: si sono divertiti? Si sono divertiti?! (M. Reggiani, Strana gente i formatori, ESTE, 2017).
Seconda parziale risposta: la formazione, per produrre risultati utili a chi la riceve oltre che al sistema produttivo e sociale e a chi la fa, dovrebbe avere come condizione la verifica dell’interesse reale e richiedere un investimento di chi vi partecipa. Investimento vuol dire per esempio un vincolo contrattuale per un periodo, o la partecipazione ad alcuni tipi di progetti aziendali, o l’adesione a un diverso percorso di carriera.
Tirando le fila, è evidente che ognuno dei tre attori deve fare la sua parte perché ci siano esiti positivi. Come si fa? Libro dei sogni? No. Qualche soluzione esiste, e passa dal sano utilizzo della strumentazione esistente, normativa e di politiche attive, per quanto insufficienti.
Un approccio prevede di mettere insieme imprese che si impegnano ad assumere persone che vengono formate in alternanza scuola-lavoro, con un controllo serrato delle modalità e dei contenuti. Formazione svolta da entità capaci, e che devono dar conto degli esiti. Sistema di misurazione duplice, formale e sostanziale, in azienda, in itinere. Impegno degli allievi regolato attraverso la progressione salariale, che richiede volontà iniziale e perseveranza, ma è anche un incentivo forte a non abbandonare.
Difficilmente tutti questi tasselli si incastrano senza regia. Non sembra che ci sia né da parte pubblica, né da parte delle agenzie formative, né dalle associazioni una gran voglia o capacità di assumersi il compito.
In questo spazio necessario le agenzie per il lavoro potranno esprimere quel ruolo di integrazione che dovrebbe essere nel loro dna.