“Il fondamento della Repubblica Italiana è il lavoro, non il sussidio. Eppure quando si è trattato di fare fronte alle crisi e alle trasformazioni del lavoro, tratto comune dei tanti governi che si sono succeduti alla guida del nostro Paese è stato l’approccio di tipo assistenziale/passivo, sostanziato nell’indirizzare fiumi di denaro al finanziamento di sussidi, riservando poche briciole alla costruzione di un sistema compiuto di politiche attive del lavoro”.
È un messaggio accorato quello di Maurizio Del Conte, primo Presidente di Anpal, che ha accettato di farsi intervistare da Palomar.
Professor Del Conte, perché questo succede? E come possiamo rimediare? Rivoluzionando gli ammortizzatori sociali?
“Il fatto è che scontiamo un sostanziale disinteresse – quando non una vera e propria ostilità – verso l’idea stessa che i processi di trasformazione economica e del lavoro possano essere affrontati sostenendo le transizioni occupazionali nel mercato, favorendo lo spostamento dei lavoratori dalle attività in via di estinzione a quelle con maggiore potenziale di sviluppo. Nella nostra tradizione, le crisi strutturali e congiunturali, sia a livello macro sia di singola impresa, sono state costantemente affrontate attraverso varie forme di ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione guadagni, l’indennità di disoccupazione, la mobilità, spesso con il solo obbiettivo di garantire uno scivolo verso la pensione. Un sistema molto efficace per acquisire consenso politico nel breve periodo ma che, nel lungo termine, ha prodotto un grave pregiudizio alla competitività del nostro Paese nel contesto internazionale, con un impoverimento generale sia in termini di reddito sia di prospettive di crescita”.
“Se avessimo più rispetto verso lo spirito della Costituzione non potrebbe sfuggirci che la tutela del lavoro è molto di più della semplice tutela del reddito. È la presa di coscienza che il diritto ad una esistenza “libera e dignitosa”, sancito dall’articolo 36, non è una variabile indipendente dal lavoro e che nessun sussidio è in grado di garantire compiutamente quel diritto”.
Siamo schiacciati dalla pandemia che riduce l’occupazione e impone una trasformazione radicale di molti settori.
“Oggi ci troviamo a dover affrontare una delle più gravi crisi occupazionali mai verificatesi dalla fine del secondo conflitto mondiale. I dati sui flussi occupazionali ci dicono che l’emorragia occupazionale ha già assunto proporzioni allarmanti e che il tentativo di tamponarla con il blocco dei licenziamenti si è rivelato illusorio, aprendo altre falle nel mercato del lavoro. Le imprese hanno risposto al divieto di licenziare non rinnovando i contratti a termine, con il risultato che si è già perso quasi un milione di posizioni di lavoro attive. Ma la pandemia non ha soltanto ristretto la base occupazionale. Questa crisi è straordinaria soprattutto per la profonda trasformazione che ha impresso alla composizione del lavoro e la ripresa – quando si presenterà sarà – selettiva. Interi settori produttivi e ambiti professionali si contrarranno in maniera duratura, se non definitiva, mentre altri cresceranno facendo emergere nuovi lavori”.
Cosa dobbiamo fare? Quali sono le priorità? Ci vuole una sorta di carta di identità professionale?
“Per sostenere la ripresa occorrerà prendere in carico chi ha perso il lavoro con l’obbiettivo di accompagnarlo nella transizione delle competenze, tramite percorsi formativi personalizzati e allineati alla rapida evoluzione della domanda delle imprese. Non è più rinviabile l’istituzione di una anagrafe professionale della persona, che includa i percorsi di studio, di alternanza scuola-lavoro, i tirocini, l’apprendistato, la formazione continua, le transizioni occupazionali, la mobilità geografica, la riqualificazione e l’acquisizione di nuove competenze, le misure di invecchiamento attivo e di welfare. Ogni cittadino ha diritto a vedersi riconosciuta una sorta di carta di identità professionale, che attesti l’intero percorso lavorativo e formativo; un “codice di cittadinanza attiva” al quale siano associati e nel quale siano certificati i percorsi professionali e formativi lungo l’intera vita attiva”.
“Allo stesso tempo, occorre ridare forza al progetto di una rete dei servizi pubblici e privati per il lavoro, radicati sui territori e coordinati da una agenzia nazionale rafforzata rispetto alla attuale Anpal. Occorre, cioè, riprendere il modello agenziale che ha caratterizzato le grandi riforme delle politiche attive del lavoro degli ultimi due decenni nei principali Paesi europei, superando la logica della contrapposizione tra Stato e Regioni, che ha afflitto il periodo pre e post referendum costituzionale del 2016”.
Dobbiamo trarre ispirazione dai principali Paesi europei. Quali dovrebbero essere i compiti di Anpal?
“Senza pretendere di inventare ogni volta qualcosa di nuovo, sarebbe utile trarre ispirazione dalle esperienze di maggior successo del continente europeo. Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e Paesi scandinavi hanno delegato alle agenzie nazionali le funzioni collegate alle politiche attive, sul presupposto che per fornire servizi efficaci sia necessario sburocratizzare le procedure e affidare la complessa macchina gestionale a un ente con capacità operative più agili, restituendo all’apparato ministeriale le funzioni più propriamente di indirizzo politico”.
“Una caratteristica fondamentale che accomuna i maggiori Paesi europei, e che potrebbe rappresentare anche per l’Italia una vera e propria svolta nel concepire il rapporto tra sostegno al reddito dei disoccupati e politiche di attivazione, è la attribuzione alla Agenzia nazionale delle politiche attive della gestione degli ammortizzatori sociali, cioè la parte delle politiche passive. Seguendo questo modello, l’Inps dovrebbe cedere ad Anpal il ramo di attività che gestisce la cassa integrazione e la Naspi. Un obiettivo certamente ambizioso, che sposterebbe l’intero baricentro degli ammortizzatori sociali verso la missione della riqualificazione, inserimento e reinserimento al lavoro dei disoccupati e che, in Europa, ha prodotto risultati straordinari nel contribuire alla crescita economica e all’aumento della occupazione”.
Ma in Italia tutti litigano: le Regioni contro lo Stato, il pubblico con il privato.
“Per il successo delle politiche attive italiane è necessario il concorso di tutti, ad ogni livello della architettura istituzionale, responsabilizzando tutti gli attori della rete dei servizi per il lavoro. Così come c’è bisogno di una più forte collaborazione – non di una competizione – tra soggetti pubblici e soggetti privati che da anni operano nel mercato del lavoro, contribuendo al difficile compito di rendere più efficiente e dinamico il nostro mercato del lavoro. Esistono già esperienze di successo nella collaborazione tra Stato e Regioni e tra pubblico e privato. È da lì che si deve ripartire, rendendo scalabili le buone pratiche che si sono costruite in diversi territori”.
“Il momento è irripetibile. Con le risorse nazionali già stanziate e con quelle messe a disposizione dall’Europa attraverso il Next Generation EU è possibile, forse per la prima volta, realizzare un sistema di politiche attive di livello europeo”.
“Solo così potremo trasformare questa crisi in una opportunità di crescita economica e sociale attraverso il lavoro di qualità, il lavoro contaminatore di legalità, il lavoro che valorizza le competenze e che restituisce vera dignità alle persone”.